GRANADA E LA SUA ALHAMBRA
Narrano le fonti arabe che nell’anno 1232, mentre gli Almohadi ormai in declino retrocedevano sotto la spinta castigliana, un uomo dalla folta barba rossiccia giunse nei pressi della cittadella di Granada per la preghiera di mezzogiorno. Nominato da poco imam, l’uomo dalla barba rossa salì al minbar, guardò la folla riunita sotto di sé e intonando la formula di saluto, la Fatiha, diede inizio alla preghiera. Fu quello il primo atto pubblico di Muḥammad ibn Naṣr chiamato al-Ḥamar, “Il Rosso”, colui che sarebbe passato alla storia per essere il fondatore della dinastia nasride del Sultanato di Granada e che più di ogni altra avrebbe fatto risplendere il prezioso complesso palaziale che ancora oggi domina la città andalusa. Washington Irving, che durante la sua permanenza in Spagna ebbe modo di visitare l’Alhambra nel 1828 insieme ad un gruppo di amici, restò così affascinato dalla città e dall’intero complesso che dopo poco tornò insieme al principe russo Dolgoronky ed ebbe l’autorizzazione ad alloggiare per tre mesi all’interno del palazzo dei Nasridi. A quel tempo l’intera area era provata da secoli di abbandono e devastata dall’occupazione francese ma lo stato di decadenza in cui versava risvegliò la sensibilità “romantica” dello scrittore americano che rapito dalle forme alonate dalla luce lunare scrisse: “Tutte le ingiurie del tempo […] svaniscono completamente; il marmo recupera il suo bianco primitivo […] i saloni si bagnano di una soave chiarezza e tutto l’edifico sembra un palazzo incantato dei racconti arabi”. Irving non restò a lungo a Granada: il 18 luglio del 1829 ricevette comunicazione della sua nomina a segretario dell’ambasciata statunitense a Londra e appena dieci giorni dopo, affranto, lasciò la città con un ultimo malinconico saluto: “All’imbrunire arrivai nel luogo dove il cammino serpeggia tra le montagne e mi fermai per dirigere un ultimo sguardo su Granada. Adesso potevo comprendere qualcosa dei sentimenti provati dal povero Boadil quando disse addio al paradiso che si lasciava alle spalle e contemplò davanti a sé il cammino aspro e ripido che conduceva all’esilio”.
Boadil, chiamato così dai cristiani, era il sultano Muhammad XII, ultimo protagonista della Reconquista, la grande epopea che per secoli coagulò le forze cristiane della Penisola iberica nel lento quanto inarrestabile processo di unificazione (sebbene incompleto) territoriale e che avrebbe contribuito non poco alla costruzione di una comune identità nazionale. Già dalla fine di aprile del 1491 l’esercito di Ferdinando II d’Aragona aveva occupato la “vega” di Granada la fertile valle attraversata dal fiume Genil e da cui dipendeva l’approvvigionamento alimentare dell’intera città e si racconta che quando giunse sul posto anche Isabella di Castiglia i due sovrani si spostarono presso il villaggio di La Zubia da dove l’Alhambra poteva essere ammirata in tutta la sua stupefacente bellezza. Ferdinando ed Isabella che nel 1479 si erano uniti in matrimonio unificando le corone di Castiglia e Granada (che mantennero però ancora a lungo una formale indipendenza amministrativa) sapeva di trovarsi di fronte all’atto conclusivo di un lungo percorso che aveva ricacciato gli arabi al di là del mare: incapaci di tenere insieme i pezzi di un potente emirato disgregatosi nei secoli in una miriade di Stati indipendenti questi non riuscirono a contenere la pressione cristiana. Divisioni che non mancarono però anche nel campo cristiano: dopo la grande vittoria di Las Navas de Tolosa, colta il 17 luglio del 1212, inimicizie e incomprensioni rallentarono la riconquista delle terre cadute nelle mani dei mori tanto che molti sovrani cristiani preferirono un ben più agevole tributo in denaro che arrischiarsi in una costosa e incerta campagna militare. Soltanto Isabella e Ferdinado, i Re Cattolici, trovarono le condizioni giuste per ridare vigore alla Reconquista rievocando lo spettro dell’aggressione musulmana all’Europa cristiana dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 per mano dei Turchi Ottomani di Maometto il Conquistatore. Certi di ottenere una facile vittoria su un nemico ormai debole, isolato e corroso dalle lotte intestine, per Ferdinando ed Isabella la conquista di Granada e l’ingresso trionfante nell’Alhambra divennero parte di un ambizioso disegno politico di legittimazione del proprio ruolo di nuovi sovrani nazionali: realizzare l’unificazione politica della Penisola iberica per dare vita ad un nuovo Stato moderno avrebbe posto fine alla coabitazione tra le due anime cristiano-musulmana (che a quelle latitudini avevano animato la storia di buona parte del Medioevo) e Granada, in tutto ciò, sarebbe stata la cornice di questo quadro. Ciò che più di ogni altro favorì la conquista della città non fu solo il vantaggio delle forze in campo che los reyes potevano vantare ma fu soprattutto la mancanza di unità nel campo islamico: nel 1482 il giovane Boabdil contravvenendo ai desiderata del padre si fece incoronare come Muhammad XII ma non ottenne il consenso unanime della sua gente che si spaccò in due fazioni alla luce della discesa in campo dello zio paterno al-Zaghal, anch’esso autoproclamatosi sultano. Convito che una vittoria militare contro i regni cristiani avrebbe legittimato il suo potere agli occhi del suo popolo, Boabdil si avventurò in una scriteriata campagna militare che si rivelò un disastro e nel corso della quale non solo venne sconfitto ma, il 21 aprile 1483, cadde preda del nemico “crociato”. Ferdinando e Isabella lo liberarono (convinti che il suo ritorno a casa avrebbe alimentato nuovi odi) non prima di avergli fatto firmare un accordo con il quale il sultano musulmano si riconosceva loro tributario.
La cosa non venne affatto accettata tra i mori ma come previsto dai los reyes, il suo ritorno favorì l’inizio di una guerra civile tra Boabdil e al-Zagha che logorò le resistenze musulmane: solo allora Ferndinando fece la sua mossa e nella primavera del 1491 strinse sempre più il cappio attorno a Granada, stretta in un logorante assedio. Boabdil, una volta perse le speranze di ricevere aiuto dai musulmani d’Africa decise di aprire i negoziati. L’accordo venne siglato nella notte tra il 24 e il 25 novembre 1491: questo prevedeva che fosse concesso agli abitanti di Granada l’uso delle moschee e che a Boabdil fosse assegnato un piccolo regno indipendente nella regione delle Alpujarras. Poi, in un tempo di sessanta giorni i patti prevedevano che fossero consegnate alle forze cristiane armi e fortificazioni ma temendo una sollevazione popolare Boabfil decise di non perdere tempo e il 2 gennaio 1492 lasciò per sempre l’Alhambra. Ferdinando ed Isabella entrarono così nell’ultima città musulmana d’Occidente e quello che si aprì ai loro occhi fu uno spettacolo stupefacente: i Nasridi, nei secoli, avevano reso l’Alhambra un luogo privilegiato, un gioiello ricco di palazzi, giardini, torri e giochi d’acqua. Costruita sul colle dove pare fosse sorta la romana Iliberis, scomparsa però prima dell’Egira, l’intero complesso architettonico si contraddistingue per la presenza di tre gruppi di edifici: militari (una vera e propria fortezza) palatini (cioè destinati al governo del regno, alla residenza del sultano e della corte) e civili (un vero e proprio centro abitato dotato di moschea, mercato e case). Esistono ancora due palazzi che hanno mantenuto intatto il loro antico splendore: il Palazzo dei Leoni e la Torre di Comares. Quest’ultimo era la sede del potere esecutivo e ospitava al suo interno la sala del trono, la residenza del sultano, il bagni e il “patio de los Arrayanes”; il Palazzi dei Leoni è invece un’opera emblematica dell’architettura barocca nasride e celebre è il suo patio, un cortile interno circondato da un portico con 124 colonne di marmo bianco di Almería, dal fusto sottile e dal capitello cubico intarsiato da iscrizioni. Nel suo centro ospita la Fuente de los Leones, la famosa fontana sostenuta da dodici leoni che, come la stella a dodici punte (che si ottiene intrecciando due stelle di David a sei punte) simboleggia i dodici principi figli di Ismail, da cui discendono gli Arabi.