I SARDI NON SI ARRENDONO MAI!
50 ANNI DI GUERRE: LA RESISTENZA ANTIROMANA DELLA BARBARIA, 163-111 A.C.
In alcune province il governo romano non fu sempre sinonimo di efficienza: fu il caso della Sardegna, strappata al governo ben accetto dei Cartaginesi (nonostante alcune resistenze iniziali) durante le guerre puniche, che aveva sofferto fin da subito una dominazione repubblicana rapace, lasciata nelle mani predatorie dei pretori, ai quali interessava più che altro arricchirsi delle risorse della provincia, spremendo soprattutto il ceto agricolo sardofenicio con tasse e balzelli.
La famosa ribellione di Ampsicora, un nobile di origine punica, nell’ultimo ventennio del terzo secolo a.C. aveva dimostrato ai romani la pericolosità degli abitanti dell’isola, le cui tattiche di guerriglia riducevano le capacità belliche delle forze di fanteria pesante repubblicane.
Sebbene le aree costiere e parte dell’entroterra fossero ormai nelle salde mani dei repubblicani, i territori della Barbaria, mai sottomessi realmente neppure dai Cartaginesi, continuavano a mostrarsi ostili ai romani. Nel 182 a.C. il vento della rivolta soffiò ancora tra i clan di tradizione nuragica: è Livio a parlare di un bellum ad Iliensibus, la principale tra le tribù dei barbagi. Poiché la guerriglia messa in atto impediva il dispiegamento delle forze legionarie, già tra l’altro impegnate contro l’altro insidioso nemico rappresentato dai liguri, il pretore Pinarius chiese lo schieramento di 8000 fanti e 300 cavalieri tra gli alleati, della cui provenienza a parte essere peninsulare non sappiamo altro. Comunque una pestilenza impedì l’arrivo dei rinforzi, tanto che i romani dovettero sguarnire Pisa, essendo ormai stati arginati i continui attacchi dei liguri. Nonostante in Corsica, anch’essa in rivolta, Pinario aveva avuto successo, lo scontro con gli Iliensi terminò in un nulla di fatto, anzi: gli Iliensi riuscirono a fomentare alla rivolta anche i cugini Balari, con cui nel 178 a.C. invasero le province costiere (l’area che i romani definivano “pacata”) razziando e annientando i presidi.
Frustrati dalla penuria di grano, i legati provinciali chiesero l’intervento del Senato: non soltanto i sardi minacciavano le colonie latine, ma gli stessi Balari si diceva (Pausania, X 17, 5) che fossero guerrieri celtoiberici un tempo al servizio dei punici, divenuti dei disertori e poi dei signori locali dopo essere fuggiti sulle montagne. Da ricorare il ritrovamento di un cippo tenninale a Berchidda, in Galura, che testimonierebbe il nome composto di questo clan “Ba La Ri”, prospettato da alcuni autori in un connotazione confederale, forse anche con influenze straniere, in particolare iberiche. A prescindere dalla loro origine, i Balari facevano paura tanto che nel 177 a.C. due legioni di 5000 fanti, supportate da 600 cavalieri alleati invasero il territorio degli Iliensi. La tattica del saccheggio sistematico e dell’attacco ai civili costrinse prima i Balari e poi gli Iliensi a scendere in battaglia: battuti in campo aperto, non restò che ritirarsi nelle fortezze, espugnate con violenza. Le fonti parlano di quasi 12.000 Sardi uccisi, una cifra esagerata.
Il Console Sempronio Gracco, al comando dei vittoriosi, fece ergere un grande cumulo composto dai trofei strappati al nemico, che arse in onore del Dio Vulcano. I Sardi non si erano ancora piegati: ne dovettero morire altri 15.000 (altra cifra piuttosto “pompata” dalle fonti) prima che, presi circa 200 ostaggi, Gracco potesse annunciare che la provincia era stata pacificata. A Roma, l’iscrizione affisa dopo il trionfo all’esterno del tempio della Mater Matuta, riportataci da Livio, esalta la grandiosa vittoria contro un popolo temuto: “Sotto l’imperio e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco, la legione e l’esercito del popolo romano piegò la Sardegna. In codesta provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose in modo felicissimo per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino; per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”. Sebbene le cifre fossero evidentemente esagerate (la popolazione della Sardegna dell’epoca probabilmente superava a malapena i 250.000 abitanti), la vittoria di Gracco apparve per 50 anni essere stata risolutiva, pur non riuscendo a imporre un reale controllo se non tributario sulle popolazioni montane. Inoltre è probabile che vari conflitti minori non siano stati riportati nelle cronache, come appaiono essere alcuni brevi scontri tra 163 e il 162 a.C.
Nel 126 a.C. la situazione sfuggì nuovamente di mano: pare che questi conflitti iniziassero a prendere la forma di una lotta al brigantaggio, tuttavia ciò è più che altro una spia non solo degli scontri etnici che pure divampavano nelle aree della Barbaria, ma anche di uno scontro di classe tra i grandi latifondisti romani o nativi avversati sia dalle popolazioni tribali che dai ceti servili. Ciò diventerà il reale scontro che senza sosta durerà fino all’epoca Bizantina, ma ormai quasi del tutto scevro di una reale lotta indigena. Queste si chiusero invece prima apparentemente con la vittoria del 122 a.C. del console L. Aurelio Oreste, che faticò enormemente per giungere alla vittoria finale. Ben giovarono, forse, le reclute ausiliarie di liguri, reti e celti alpini, forze che verranno inquadrate nelle Cohortes Alpinorum nel secolo successivo: una possibile prova è la presenza attestata da epigrafia della Cohors II Gemina Ligurum et Corsorum (formata appunto da reclute celtoliguri e corse, esperte nel combattimento montano, legata alle antenate Cohors Trumplinorum, poi Cohors Montanorum) nel I secolo d.C., forse frutto di una tradizione di ausiliari già impiegati dalla fine del II secolo a.C. Ma rimane una teoria.
L’ultima scintilla di resistenza indigena è nel 111 a.C. anno che si chiuse con il trionfo di Cecilio Metello, dopo una serie di pur difficili operazioni contro i Galillenses, tra i colli della Barbagia meridionale. L’uso degli ausiliari (forse celtoliguri?) contro i popoli indigeni della Sardegna è attestato ancora nel 104 a.C. quando propretore T. Albucio condusse varie operazioni militari con una cohors auxiliaria contro i sardi definiti con sprezzanto Cicerone come “mastrucati latrunculi”. Si chiuse così una sanguinosa stagione di guerre per la Sardegna, che tristemente fu ricordata da Livio anche dal gran numero di schiavi sardi presente sui mercanti della Repubblica: “sardi venales”, ovvero sardi che costano poco, una frase che non descrive certo appieno la feroce resistenza di un popolo.
BIBLIOGRAFIA:
Tito Livio, libri XXVII, XL, XLI, XLII;
Raimondo Zucca, Le Civitates Barbariae e l’occupazione militare della Sardegna: aspetti e confronti con l’Africa;
Giovanni Lilliu, La costante resistenziale sarda;
Pausania, X 17, 5 (riguardo alla presunta origine dei Balari);
Meloni, Stato attuale dell’epigrafia latina in Sardegna e nuove acquisizioni, Cambridge 1967 (specificamente riguardo l’iscrizione dei Balari di Berchidda, corredata dalle teorie di Hulsen, RE, II, 2 1896);
Spaul, Cohors The evidence for and a short history of the auxiliary units of the Imperial Roman Army (riguardo alle attestazioni della Gemina in Sardegna, nonché quelle della Cohors Trumplinorum poi Montanorum);
F. Cenerini, Epigrafia romana in Sardegna.