“Il crisantemo e la spada” è stato uno dei più autorevoli trattati sul popolo giapponese, scritto dall’antropologa Benedict Ruth durante la seconda guerra mondiale. Ruth, nata alla fine del 1800, nacque in un periodo dove per le donne non era facile poter studiare all’università e l’antropologia era ancora una scienza relativamente giovane e profondamente inesatta, basata soprattutto su luoghi comuni e “dicerie” (in un modo molto simile a quello che abbiamo visto noi degli anni 80 per quanto riguardava la paleontologia, scienza salvata da un gigante del calibro di Jack Horner), ma l’impegno che la Benedict mise al servizio di questa disciplina le permise, alla fine della sua vita, di divenire una delle donne più fidate del presidente degli Stati Uniti del tempo, Francis Delano Roosevelt. Gli USA erano in guerra col Giappone, un paese che stava attraverso un momento di oscurantismo e di xenofobia. Il premier Tojo aveva deciso di conquistare tutta l’Asia, alleandosi con la potente Germania Nazista e il suo alleato italiano, ciò portò il popolo giapponese a commettere alcuni tra gli altri più osceni che la loro lunghissima storia può ricordare( basti ricordare i massacri di Nanchino). Roosevelt chiese alla Ruth di stilargli un rapporto su ogni singolo aspetto del popolo che dovevano combattere, un popolo che nessuno conosceva, un popolo che aveva sconfitto con facilità il gigante russo all’inizio del novecento, un popolo, che si diceva, non avesse mai perso una vera guerra.
L’antropologa riuscì col proprio lavoro a stilare diversi rapporti che aiutarono gli Stati Uniti a prendere il vantaggio contro il popolo nipponico. I suoi scritti permisero al mondo occidentale e al blocco sovietico, di scoprire un mondo che fino a pochi anni fa, neppure conoscevano, una terra lontana ed esotica che era stata amata in special modo dai francesi, fin dagli inizi dell’ Ottocento innamorati di questo paese. L’antropologa, con un’imparzialità ed una professionalità impeccabile, descrisse per filo e per segno i principali caratteri sociali, religiosi, spirituali e più intimi dei “nemici” del suo paese. In questo libro, la Ruth fa trapelare il suo enorme amore che ha per questo popolo, anche se a volte si sente quasi irritata da certi loro atteggiamenti (basti ricordare il capostipite dell’ antropologia, il polacco Malinosky, che odiava a morte i popolani delle isole Tropian, il suo “materiale di studio” ), ma mai senza mancargli di rispetto. Purtroppo (cosa di cui parlerà nelle sue lettere) gran parte del suo lavoro verrà poi snobbato dalla dirigenza Truman, la quale commetterà un atto forse ancora più grave di quelli commessi dai giapponesi nei territori che aveva conquistato con la forza e con il terrore, il bombardamento atomico di Hiroshima (広島市) e di Nagasaki (長崎市) .
Il titolo del suo libro “Il crisantemo e la spada” è basato su una sua considerazione estremamente interessante. Il crisantemo ( ikebana) rappresenta la voglia dei giapponesi di basare la loro vita sulla cultura e sulla sapienza mentre, dall’altra parte, vi è la spada (katana), la loro volontà di combattere per quello che hanno, per quello in cui credono. Nei primi due capitoli si parla di tutto l’universo dei valori di un Giapponese in questo campo, questa massima è: “ognuno al suo posto!”. Due sono le evidenti caratteristiche di una tale filosofia: la prima è il credere fortemente in un assetto gerarchico, la seconda la particolare rigidità di tale assetto. Fino ai tempi della restaurazione Meiji (1862- 1912) si sarebbe potuto parlare addirittura dell’esistenza di caste in Giappone, dato che esso costituiva uno dei regimi più strettamente feudali del mondo; ma anche nel dopo guerra nel Giappone moderno e industrializzato esistono precetti morali che limitano qualunque forma di libertà. Questi precetti morali, chiamati ON e GIMU sono il cemento che ha tenuto assieme il paese in quegli anni.
Esiste, ad esempio, una inderogabile devozione che lega madre e figlio, figlio e fratello maggiore, figlio e padre; la stessa devozione lega discepolo e maestro e subalterno e superiore. Secondo la filosofia nipponica della politica e della storia degli anni del conflitto, dovrebbe legare ogni altro paese al Grande Giappone. L’idea con cui questo popolo entrò in guerra era infatti assai singolare: la nazione giapponese riteneva di doversi porre a guida del mondo intero, perché questo era il posto che le spettava. Nonostante si sia trattato di una guerra che il Giappone visse prioritariamente da aggressore ed invasore, vi fu dunque una grande partecipazione emotiva ed idealistica popolare. “Idealismo” fu la parola d’ordine, visti i discorsi fatti dall’autorità riguardo alla carenza di armi o alle varie sconfitte subite, discorsi che a noi paiono propri di un popolo disperato che si voglia autoconvincere: riguardo alle sconfitte il ritornello era “è tutto calcolato” I Giapponesi, infatti, benché sappiano tollerare fame, freddo e dolore più di chiunque altro, non sanno sopportare l’imprevisto. Tutto questo è riassunto nella frase del generale Araki: “L’inadeguatezza delle nostre forze non può preoccuparci. Perché infatti, dovremmo preoccuparci di qualcosa che è materiale?” Nel terzo capitolo si parla della Restaurazione Meiji mentre nel quarto si troverà una delle basi della cultura giapponese, quella del dovere (On). Qui vi elencherò i principali On del popolo nipponico.
1) il KO ON, che si riceve dall’imperatore all’atto di vivere nella società
2) l’OYA ON, che si riceve dai genitori all’atto della nascita
3) il MUSHI NO ON, che si riceve dal padrone o dal capo
4) lo SHI NO ON, che si riceve dal maestro di una disciplina.
Accanto all’eterna devozione, si manifestano le necessarie e a loro volta eterne modalità di pagamento.
Genericamente si parla di Gimu, ovvero di immortale disponibilità; ne esistono poi di più specifiche:
1) al ko on corrisponde il CHU, la fedeltà all’imperatore
2) all’oya on il KO, la fedeltà verso la famiglia
3) al MUSHI NO ON il NIMMU, la fedeltà ai propri compiti.
Nell’ultimo capitolo (ho saltato diversi capitolo in maniera puramente intenzionale sia chiaro) vi è la relazione che hanno i giapponesi con il piacere. Ritenere l’argomento talmente futile che non vale la pena di preoccuparsene: quello che capitava sempre bene. Questo è il motivo per cui, tra tutti i paesi orientali, il Giappone è l’unico a garantire a chiunque una libertà sessuale che all’occidente parrebbe invece immorale. Il secondo e maggioritario atteggiamento è quello di concedersi il piacere preparandosi però ad una espiazione.
È ad esempio considerato da loro un grande piacere quello di un bagno caldissimo. Così anticamente i contadini tornati a casa la sera si immergevano voluttuosamente in una vasca fumante. Ma la mattina successiva, per pareggiare i conti si infliggevano il supplizio di gettarsi sotto una cascata gelata. Oltre a considerarlo come qualcosa da “pagare” i giapponesi pongono il piacere all’ultimo gradino delle priorità. Ritengono per esempio il sonno un piacere e non una necessità, così i giovani studenti sono soliti privarsene quasi completamente nei giorni prima d’un esame.