I Musulmani conquistarono la Sicilia nel IX secolo strappandola ai Bizantini, sebbene ci vollero ottant’anni e alcune fortezze rimasero in mani cristiane. Tra il 1060 e il 1091 gli Arabi di Sicilia vennero sconfitti e sottomessi dai Normanni, che almeno in un primo momento permisero ai vinti di continuare a governarsi da soli. Negli anni successivi la perdita delle autonomie concordate con i vincitori grazie alle varie capitolazioni fu un duro colpo per le comunità arabe della Sicilia. Inoltre, nella contesa fra Normanni, Tedeschi e Siciliani per il controllo dell’isola i Musulmani si trovarono spesso schiacciati fra i vari contendenti e a volte soggetti a “pogrom” da parte dei locali. Quando Federico II, ancora molto giovane, ascese al trono siciliano, i Saraceni di Sicilia si allearono con Marquando di Anweiler, il reggente che si opponeva al papa Innocenzo III, che voleva riportare l’isola sotto il suo controllo. I rivoltosi vennero sconfitti dall’esercito regio‐ papale tra Palermo e Monreale, ma essi iniziarono un’insurrezione che divampò in tutta la Sicilia. Sotto la guida di Ben‐Abed i Saraceni si arroccano sui monti in rifugi inespugnabili, ma non appena ne fu in grado Federico II cominciò una vigorosa campagna contro i ribelli. Nell’estate del 1222 espugnò il castello di Giato, che rappresentava la principale fortezza saracena, e prese prigioniero lo stesso Ben‐Abed e due suoi figli, i quali vennero impiccati a Palermo. Il trattamento esemplare riservato al capo dei ribelli determinò la resa di molti ma non di tutti i rivoltosi. Per costringerli ad arrendersi, Federico impiegò forze notevoli per tagliare le vie di rifornimento dei Saraceni, che un gruppo alla volta dovettero cedere per non morire di fame. Dal 1223 al 1225 gli ultimi rivoltosi si arresero a mano a mano che appariva sempre più evidente quanto fosse disperata la loro situazione. Domata la ribellione, Federico dovette decidere come sistemare la questione. La conoscenza dei luoghi e la vicinanza ai potenti regni musulmani dell’Africa del Nord avrebbero potuto spingere questi riottosi sudditi a ribellarsi di nuovo, dunque lo Svevo decise di tagliare i contatti fra Arabi di Sicilia e del Maghreb. Fra i 15.000 e i 30.000 musulmani vennero spostati poco alla volta dall’isola all’Italia Meridionale, a Lucera, Girofalco in Calabria e Acerenza in Lucania. Alcuni gruppi si stabilirono anche nelle zone limitrofe: a Stornara, Casal Monte Saraceno e Castel Saraceno. Tuttavia, i Saraceni non amavano la nuova sistemazione e si ribellano nel 1224 e nel 1226, costringendo l’esercito imperiale ad intervenire. Per risolvere la questione e permettere alle autorità locali di sorvegliarli con più facilità, il 25 dicembre 1239 Federico II emanò un decreto secondo il quale tutti i Saraceni nell’Italia del Sud dovessero essere concentrati nella città di Lucera. Nonostante il malumore del papa e dei guelfi, che ritenevano inconcepibile una così forte presenza musulmana cui i cristiani del luogo dovevano adattarsi, la convivenza fra religioni non diede adito a gravi incidenti.
I Saraceni di Lucera sono abili agricoltori – Federico II infatti vuole rivitalizzare l’area – e artigiani, che forniscono soprattutto tendaggi e armamenti agli eserciti dell’imperatore, ma non solo. Verso il sovrano essi nutrono una profonda fedeltà, in quanto lo Svevo li ha perdonati dopo la ribellione del 1226 e gli ha concesso la vita, il lavoro e la libertà religiosa (dietro il pagamento di una apposita tassa chiamata “gezia”). Per ripagare tale debito i Saraceni forniscono al sovrano un esperto corpo di tiratori, che in breve diventa una parte fondamentale dell’esercito imperiale. I Normanni di Sicilia non avevano una grande tradizione di arcieria, tanto che spesso utilizzavano ausiliari locali o fanti poco esperti quando erano costretti a usare truppe da tiro. Invece i Saraceni avevano alle spalle una lunga e florida tradizione militare in cui l’arco era un’arma fondamentale, sia che fosse usata a piedi che a cavallo. Al contrario dei Cristiani, per i quali le armi da tiro erano vili e meritevoli di disprezzo, per i Saraceni il tiro con l’arco non era solo una nobile e utile arte, ma anche una fard kifayah. Con questo termine si indica un’incombenza religiosa prescritta dal Corano e dalle scritture che non ricade solo sul singolo ma sull’intera comunità. L’interpretazione spirituale dell’arceria era così importante tanto da immaginare l’arco composito come simbolo del corpo umano, con il legno rappresentante le ossa, il corno la carne, i tendini le arterie e la colla il sangue. Si dice anche che le frecce scagliate a distanza, venissero raccolte a piedi nudi, in segno di rispetto per la terra consacrata tra la posizione di tiro e l’obiettivo, sebbene l’uso pratico dell’andare scalzi fosse quello di individuare meglio le frecce conficcate nel terreno. Il mondo arabo produsse moltissimi trattati sul tiro con l’arco, un’attività giudicata consigliabile e utile dal Profeta stesso.Già i Normanni impiegarono truppe musulmane come ausiliari, apprezzandone l’abilità quale cavalleggeri e tiratori. Nel resto d’Italia si impose la balestra come arma da tiro, superiore per gittata e penetrazione agli archi che potevano essere usati dai tiratori nostrani.
Sebbene i Musulmani conoscessero la balestra, continuarono a preferirle l’arco per motivi tecnici e religiosi (in un trattato si denigrava la sua forma, simile a una croce). Dunque, rispetto agli europei che, eccezion fatta per i Gallesi, non avevano la capacità tecnologica di costruire archi in grado di rivaleggiare efficacemente con le balestre, gli artigiani Musulmani erano in grado di costruire archi compositi, più potenti e robusti dei cosiddetti “archi dritti”, composti solo da legno. Gli archi dei Saraceni infatti avevano un’anima di legno sulla quale venivano però incollate lamine di corno sul lato anteriore e tendini animali sulla faccia posteriore. Il corno offriva una maggiore resistenza alla pressione esercitata sul lato anteriore, mentre i tendini garantivano una maggiore resistenza alla trazione esercitata sulla faccia posteriore. Tale assemblaggio permetteva di ottenere degli archi molto corti, che sviluppavano una forza maggiore di quelli in solo legno.
Ma nonostante ciò gli arcieri di Lucera non usavano solo i loro eccellenti archi. Attraverso l’uso composito di archi, balestre e giavellotti, i Saraceni potevano mantenere un’agilità maggiore rispetto alle statiche coppie di balestrieri-pavesari in auge nel resto d’Italia. L’equipaggiamento difensivo consisteva in una giubba imbottita chiamata “giubbetta”, un elmo tondo chiamato “cervelleria”, delle protezioni per le spalle note come “spalliere” e un piccolo scudo rotondo chiamato “targa”. Oltre all’arco composito (o giavellotti o balestra), l’armamentario dell’arciere comprendeva una corta arma bianca quale una daga. Erano capaci di colpire un obiettivo di un metro alla distanza di 75 metri, e a cavallo, sarebbero stati in grado di scoccare frecce in successione girati verso la parte posteriore di un destriero al galoppo. Anche se probabilmente non efficaci come i più allenati Mamelucchi, popolazioni dell’est (i cui allenamenti presumibilmente duravano otto anni), erano molto meglio preparati di molti dei nemici che incontrarono sui campi di battaglia italiani. Quando combattevano a cavallo essi sfruttavano la propria velocità per evitare i dardi nemici e aggirare le formazioni nemiche, per poi colpirle ai fianchi per scompaginarle. Quando invece si battevano a piedi, agivano come supporto della cavalleria pesante, aggredendo i fanti o i cavalieri nemici dalla distanza per “ammorbidirli” prima della carica decisiva.
Lo scontro più celebre cui presero parte e in cui giocarono un ruolo importante fu la battaglia di Cortenuova, combattuta fra il 27 e il 28 novembre del 1237. L’imperatore Federico II era sceso in Italia per regolare i conti con la Lega Lombarda, che a Legnano aveva sconfitto suo nonno Federico Barbarossa. Il suo esercito era formato da cavalieri tedeschi, truppe italiane e arcieri Saraceni, per un totale di circa 15.000 uomini. Dopo uno stallo fra i due eserciti arroccati durato quindici giorni, Federico riuscì a ingannare le forze della Lega facendogli credere che si sarebbe ritirato a Cremona per svernare. Queste abbandonarono così la fortissima posizione che avevano a Manerbio per tornarsene alle proprie case. Quando ebbero attraversato l’Oglio, gli alleati dell’imperatore segnalarono il movimento con messaggi di fumo, così che l’intero esercito imperiale si lanciò all’inseguimento del nemico. Gli arcieri di Lucera furono, insieme ai cavalieri, i primi a lanciarsi contro i leghisti, presi alla sprovvista. I milanesi e i piacentini, colti di sorpresa, si videro cadere addosso una pioggia di frecce seguita dalla carica dell’impetuosa cavalleria tedesca, che ne spezzò le fila respingendoli a Cortenuova. Qui altre truppe milanesi e alessandrine si ammassarono intorno al Carroccio, cercando di replicare la strategia vincente che a Legnano era costata cara al Barbarossa. Ma in questo caso la cavalleria della Lega non poté riorganizzarsi e aggredire alle spalle gli imperiali, in quanto dovette subire perdite mostruose per permettere ai fanti di riorganizzarsi. Attaccati ai fianchi dai bergamaschi che sopraggiunsero da nord, i lombardi furono quasi travolti in più di un’occasione, e il loro comandante Pietro Tiepolo catturato. I cavalieri germanici potevano infatti caricare e ritirarsi indisturbati per riposarsi, mentre la formazione serrata dei fanti comunali era un bersaglio statico perfetto per i tiratori di Lucera. In qualche modo i soldati della Lega riuscirono a resistere fino al calar del sole, quando l’attacco si interruppe. Durante la notte si diedero alla fuga, abbandonando il Carroccio, troppo pesante da portare via, ma molti di essi trovarono la morte per mano dei bergamaschi e degli altri ghibellini o nel disperato tentativo di attraversare l’Oglio e il Serio. La battaglia fu una delle più sanguinose del Medioevo e un successo strepitoso per Federico II. Pier della Vigna scrisse che “i Tedeschi tinsero le loro spade nel sangue… i Saraceni svuotarono le loro faretre. Mai in nessuna guerra ci furono tanti cadaveri ammassati;…”
In seguito i Saraceni di Lucera servirono i discendenti di Federico e diedero un contributo importante alla difesa del regno Svevo, e dimostrarono ancora una volta il loro attaccamento alla casa Hohenstaufen quando nel 1268 si ribellarono per supportare Corradino di Svevia, calato in Italia per reclamare il trono di Sicilia. Dopo la morte del sovrano l’anno seguente, i Saraceni per oltre trent’anni pagarono i tributi e diedero il proprio contributo alle imprese militari dei nuovi signori Angioini. Carlo I di Sicilia proseguì nell’uso degli arcieri nelle sue armate, utilizzandoli nei Balcani, in Tunisia, nella Guerra dei Vespri Siciliani e sulle navi.
Comunque, il numero dei Saraceni impiegati iniziò a decrescere. È possibile che Carlo I non si fidasse pienamente di loro. Inoltre, la popolarità della balestra era costantemente in crescita. Il successore del sovrano, Carlo II, determinò la fine dell’esperienza lucerina. Adducendo come pretesti la sua fervente fede cristiana, il timore di una ribellione e i danni che i Saraceni provocavano alle terre limitrofe, l’Angioino decise di estirpare la colonia musulmana. In realtà il vero movente per tale mossa era il timore per una ribellione, resa sempre più probabile dai soprusi nei confronti degli Arabi da parte dei Cristiani, e il desiderio di impadronirsi di terre e ricchezze in un momento in cui la Corona era a corto d’oro a causa della dispendiosa guerra in Sicilia.
La città venne circondata e catturata, i difensori massacrati, le moschee e i minareti rasi al suolo, e tutti gli abitanti vennero venduti come schiavi, mettendo la parola fine a quasi un secolo di convivenza pacifica fra Musulmani e Cristiani nell’Italia del Sud.