Le brutte statuone

GIOCHIAMO ALLE “BRUTTE STATUONE”.

Sono brutte? Sono belle?
Dico: l’omino della pioggia nella rotonda di Bellariva, la “statua all’optalidon” di Porta Romana, entrambe fatte oggetto del tirassegno di automobilisti briachi (ancora l’altra notte l’ha scampata d’un pelo il povero omino di Folon), kamikaze a quattro ruote che qualcuno in città giudica vandali, altri (e non pochi) stimano alla stregua di “giustizieri estetici” ed eroi della lotta al Brutto modernista?
La querelle che è seguita all’ultimo episodio di cronaca è in fondo querelle oziosetta assai: manco quel genio di Kant è riuscito a stabilire una volta per tutte una Critica del Giudizio Estetico in grado di confutare con argomenti inoppugnabili, l’adagio popolare “tutti i gusti son gusti”, col suo corollario: “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”. Però essa querelle mi induce a riproporre un articolo da me scritto una decina d’anni or sono per il “Corriere fiorentino”, all’epoca della non gradita donazione di un paio di grosse statue da parte di una città cinese, e dunque prima di successivi episodi significativi (la statua Two Rivers in piazza Signoria, rifiutata con sprezzante malagrazia dall’allora assessore alla Cultura Giuliano da Empoli, e altre contestate esposizioni transitorie di piazza: la Tartaruga di Fabre , la monumentale e scatologica Big Clay di Urs Fisher, ecc.)
Ecco l’articolo, per chi vorrà leggerlo.

“Proviamo un po’ a giocare alle “brutte statuone”.
Sì, perché l’imbarazzante vicenda delle statue cinesi, per le quali si è a lungo stentato e ancora si stenta a trovare una collocazione (come per certi soprammobili-regali di nozze destinati alla soffitta, o alla pattumiera), ribadisce una verità storica di evidenza solare: in realtà, ai fiorentini, le statue non sono mai piaciute troppo.
A parte, forse, il magic moment dei tabernacoli esterni di Orsanmichele, appaltati dalle Arti a Nanni di Banco, Donatello, Ghiberti e Verrocchio, le statue, a Firenze, hanno avuto sempre vita grama, o almeno travagliata.
Chissà com’è che la città ne è piena, e anzi, la sua piazza principale venne trasformata dal mecenatismo mediceo, sottraendola furbescamente ad usi meno estetizzanti, ma più democratici, in una sorta di museo di scultura all’aperto…
Vediamo.
Vogliamo cominciare proprio da Piazza Signoria?
Lasciamo stare, sotto la Loggia dei Lanzi, il Perseo del Cellini, horror mitologico di inattaccabile perfezione. Ma perfino l’eccelso David di Michelangiolo, sebbene unanimemente osannato, ha dovuto subire ogni sorta d’affronto a sfondo politico, prima d’essere sostituito da una copia e trasportato in interni, per sottrarlo alle ingiurie della storia e del meteo, e metterlo a disposizione delle mirate aggressioni di martelli psicopatici. Ricordiamo le sassate filo-medicee, nel 1504, e i lanci di mobilio, filo-repubblicani, dalle finestre di Palazzo Vecchio (1527: amputazione del braccio sinistro).
Accanto alla copia del David, ecco la brutta statua di Baccio Bandinelli dedicata ad Ercole che vince Caco: nome di per sé insidioso e foriero di battutacce. Ai fiorentini dispiacque subito. Benvenuto Cellini, che con i colleghi non ci andava giù tanto diplomatico, la demolì, metaforicamente, con questa critica: “Se gli si tolgono i capelli non gli rimane testa sufficiente per un cervellino, e il corpo sembra un saccaccio di poponi appoggiato a un muro.”
Poi, il povero Biancone. Così, da sempre, dileggiato per l’eccessivo candore del marmo e la grosserie dell’anatomia, il goffo Nettuno sovrappeso scolpito da Bartolomeo Ammannati per la fontana paganeggiante voluta dai Medici sul luogo del supplizio del Savonarola incontrò anch’esso la celeberrima critica, stavolta in versi, del solito Cellini: “Ammannato Ammannato, che bel pezzo di marmo t’ha’sciupato!”
Ma torniamo, per un attimo, sotto la Loggia, dove, nell’800, fu collocato il Ratto di Polissena di Pio Fedi, dal drappeggio così stucchevolmente elaborato da venir definito dai soliti criticoni cittadini “le trippe di gatto”, e spostiamoci poi in piazza San Lorenzo.
Su un piedistallo di esagerata grandezza troviamo qui la sgraziata statua seduta di Giovanni delle Bande Nere, altro capo d’opera del Bandinelli: detto anche, per l’eccessiva ridondanza dei pettorali, “la Balia di San Lorenzo”, o, in epoca più recente “il gran capitano Ebbe”, a causa dell’infelice “a capo” (poi corretto) della lapide apposta nell’800, in occasione del ricollocamento della statua sul basamento: “Una parte di questo monumento/ destinato da Cosimo Primo/ ad onorare la memoria del padre/ Giovanni delle Bande Nere/ lungamente non curata qui stette/ e il volgo la chiamò la Base di san Lorenzo/ Restaurata nell’anno MDCCCL / e postavi la statua del gran capitano ebbe/ alfine compimento la pregevole opera scolpita dal Bandinelli.”
Sempre in quell’occasione, apparve un epigramma satirico, che ironizzava sui numerosi spostamenti: “Messer Giovanni delle Bande Nere/ dal lungo cavalcar noiato e stanco/ scese di sella e si pose a sedere”.
Siamo nell’800, imperversa la moda dei “birilli”: le tronfie statue “appiedate” poste, come enormi fermacarte, in mezzo a piazze e piazzette.
In piazza Goldoni, quella del commediografo veneziano, opera di Ulisse Cambi, fece sorridere i fiorentini per l’eloquente rigonfiamento anteriore degli attillati pantaloni (“Chi avrà detto al Cambi che il Goldoni/ portava sulla destra i suoi coglioni?”). Quella di Daniele Manin in piazza Ognissanti fu poi sagacemente spostata, in zona più defilata, sul viale dei Colli. Quella del corrucciatissimo Dante scolpito e donato da Enrico Pazzi alla città (riluttante: “grazie, maestro, non si doveva disturbare…”) venne prima messa al centro di piazza Santa Croce, poi tolta, poi spostata sul sagrato, ma insomma se ne faceva anche a meno. Oggi, è un’icona.
Fra tanti pedoni di marmo e bronzo, un cavaliere. Non meno tronfio, anzi: il Vittorio Emanuele panciutissimo, “a corpo sciòrto” (la definzione è di Vamba), inizialmente posizionato al centro dell’omonima piazza, e poi anche lui trasferito, con cavallo e tutto, all’ingresso delle Cascine, quando la piazza diventò piazza della Repubblica e i Savoia passarono di moda, figuriamoci i loro orridi cloni bronzei.
Infine il Novecento.
Che ribadisce e sancisce il complicato rapporto fra la città e le sue statue, culminato nella gaffe del guerriero di Moore parcheggiato per decenni in un cortile di Palazzo Vecchio: dall’improbabile Giuseppe Mazzini in tuba e redingote come zio Paperone, che, riciclando con disinvoltura una statua di Giuseppe Verdi, ambienti “vicini al Pri” vollero assolutamente collocato sul viale omonimo, al colossale Dietro-Front di Michelangelo Pistoletto nel piazzale di Porta Romana, ribattezzato dai fiorentini “Malditesta” o “Monumento all’Optalidon”, ripetutamente osteggiato, e fatto oggetto di azioni-kamikaze da parte di automobilisti iconoclasti. Dall’ l’imbarazzante uccello ciccione di Botero sullo spartitraffico dell’aeroporto di Peretola, delizia tutt’al più dei bambini, che ne traggono buonumore e senso di autostima (“questo lo sapremmo fare anche noi!”) al san GioBatta-zombie anoressico di Vangi parcheggiato in piazza santa Maria Soprarno, dopo una breve e contestata apparizione a tradimento in via Magliabechi.
Certo, cari concittadini, accanirsi sulle statue è facile. Sono un bersaglio che ha il dono dell’immobilità. A differenza dei potenti effigiati, che, se possono, alla mala parata, se la battono.
Ma come diceva quel tale: se proprio volete abbattere le statue, quanto meno salvate i piedistalli.
Torneranno presto a far comodo.”

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