L’Impero romano consegna al cristianesimo un uso limitato ma significativo del denaro, che tuttavia si indebolisce sempre più tra i secoli TV e VII. Nel suo tanto celebre quanto contestato Maometto e Carlomagno, del 1937, il grande storico belga Henri Pirenne (1862-1935) ha sostenuto che l’entrata in scena dell’islam nel secolo VII e la sua conquista prima dell’Africa del Nord e poi della Spagna hanno messo fine al commercio mediterraneo e agli scambi economici tra Occidente e Oriente.
Senza sposare gli eccessi della tesi opposta – quella di Maurice Lombard (1904-1964), per il quale l’espansione musulmana avrebbe invece ridato fiato al commercio europeo – occorre riconoscere che i rapporti economici tra le diverse realtà del Mediterraneo non hanno mai subito vere interruzioni; l’Oriente bizantino e, soprattutto, quello islamico hanno continuato a importare materie prime dall’Occidente cristianizzato e barbarico (legno, ferro, schiavi) fornendo in cambio valuta pregiata. Di sicuro, è solo il commercio con l’Oriente che ha permesso la sopravvivenza in Occidente di una certa circolazione dell’oro, grazie alla moneta bizantina (il nomisma, detto bisante in Occidente) e a quella musulmana (dinar d’oro, oltre al dirham d’argento). Queste monete contribuirono, sia pure in misura limitata, all’arricchimento dei governanti occidentali (gli imperatori fino alla fine dell’Impero d’Occidente, poi i capi «barbari» diventati re cristiani e grandi proprietari terrieri).
Il declino delle città e degli scambi economici su larga scala caratterizza un Occidente frammentato in cui il potere è detenuto dai proprietari di grandi tenute (villae) e dalla Chiesa. La ricchezza di questi nuovi potenti era essenzialmente fondata sulla terra, lavorata da uomini ridotti in servitù o contadini con una scarsa autonomia. I servigi di questi contadini consistevano in obblighi di corvée e nel pagamento di canoni in prodotti agricoli, ma sopravviveva anche una piccola quota di versamenti in denaro, che i contadini ottenevano nei poco sviluppati mercati locali.
Grazie alla decima, di cui una parte era pagata in contante, e allo sfruttamento dei propri possedimenti, la Chiesa, in particolare con i suoi monasteri, disponeva di riserve monetarie tesaurizzabili: il metallo prezioso contenuto nelle monete e nei lingotti d’oro provenienti dalle rendite fornisce la materia prima per oggetti di oreficeria che, conservati nei tesori delle chiese e dei monasteri, vanno a costituire una riserva di ricchezza, dal momento che, in caso di necessità, questi oggetti possono essere fusi e riconvertiti in denaro. Questa pratica è presto fatta propria dall’aristocrazia e dai sovrani, a sottolineare la limitata necessità di contante nella vita quotidiana, ma anche, come già aveva notato Marc Bloch, che l’Europa altomedievale riconosce scarso prestigio al lavoro degli orafi e alla bellezza degli oggetti che fabbricano.
La penuria di moneta, come segno sia di ricchezza che di potere, è dunque uno dei punti deboli dell’economia alto medievale. È sempre Bloch, nel suo fondamentale Lineamenti di una storia monetaria d’Europa, pubblicato nel 1954, dieci anni dopo la sua morte, a evidenziare che i fenomeni monetari che dominano la vita economica sono a un tempo sintomo ed effetto. Nell’Alto Medioevo la fabbricazione e l’uso della moneta vanno incontro a un processo di frammentazione, tanto che non possediamo ancora una mappatura dettagliata di tutti i luoghi di produzione e delle relative aree di circolazione, ammesso che sia possibile realizzarla.
Coloro che, sempre meno numerosi, continuarono a servirsi del denaro tentarono di conservare e imitare le tradizioni romane. Il solidus aureo, con l’effigie dell’imperatore stampata su un lato, era la valuta principale negli scambi, ma ben presto ci si adattò al calo di produzione, consumo e commercio; la moneta d’oro di maggiore impiego divenne così il triens, che valeva un terzo del soldo. La tenuta, per quanto ridotta, della moneta romana si spiega con diverse ragioni. Prima del loro ingresso nei territori imperiali e della costituzione dei primi Stati cristiani, i popoli barbari, con l’eccezione dei Galli, non battevano moneta. Il denaro circolante in tutte le regioni che avevano fatto parte dell’Impero romano fu per un certo periodo uno dei rari strumenti di unificazione.
Il declino economico non stimolava certo la produzione monetaria. A partire dal secolo V i re barbari a poco a poco si impadronirono delle prerogative imperiali e misero fine al monopolio statale. Nella Spagna visigota il primo a emettere autonomamente dei trienti recanti il suo nome e la sua effigie fu Leovigildo (573-586). L’emissione di moneta aurea proseguì fino alla conquista araba del secolo Vili. Nell’Italia ostrogota Teodorico e i suoi successori avevano preservato la tradizione romana, mentre i Longobardi abbandonarono il modello costantiniano, ma soltanto a partire da Rotari (632652) e poi da Liutprando (712-744) batterono moneta a nome del sovrano, nella forma di un soldo aureo dal peso ridotto. In Gran Bretagna, il conio di monete cessò nel secolo V e non riprese che tra la fine del VI e l’inizio del VII, quando i sovrani anglosassoni del Kent emisero monete d’oro che imitavano ancora quelle romane. Intorno alla metà del secolo VII la valuta aurea venne rimpiazzata dagli sceattas d’argento.Alla fine del medesimo secolo i diversi piccoli regni dell’isola s’impegnarono a ripristinare il monopolio del re nell’ambito dell’emissione monetaria – il che avvenne più o meno in fretta e più o meno faticosamente in Northumbria, Mercia e Wessex. Merita una segnalazione l’apparizione nella Mercia di re Offa (796-799, come da ultima versione dell’originale, N.d.T.) di un nuovo tipo di moneta destinato a grande fortuna, il pcnny. In Gallia, i figli di Clodoveo impressero inizialmente il loro nome su dischi di rame, poi uno di loro, Teodorico I d’Austrasia (511-534), cominciò a coniare monete d’argento. Il vero monopolio regale era tuttavia legato soprattutto alla valuta aurea. Il primo re franco che, per riprendere l’espressione di Marc Bloch, ebbe il coraggio di emetterne una fu il figlio di Teodorico, Teudeberto I (538-548); il monopolio regale, però, si dissolse presto in Gallia, come e più che negli altri regni.
Alla fine del secolo VI e al principio del VII, sulle monete non si legge più il nome del sovrano, ma quello di produttori autorizzati, i monetari, che potevano essere funzionari di palazzo, orafi urbani, chiese, vescovi o grandi proprietari terrieri. Sono noti perfino alcuni monetari itineranti. Queste figure con il passare del tempo divennero sempre più numerose tanto che solo per la Gallia è stato calcolato che ci fossero oltre 1400 monetari autorizzati a coniare trienti.
I metalli con i quali si producevano le monete erano, come nell’Impero romano, bronzo, rame, argento e oro. La cartografia e la cronologia del conio nei diversi metalli sono mal definite – già Bloch affermava che è difficile capire perché. A parte l’Inghilterra, dove il rame e il bronzo circolavano parecchio, negli altri nuovi Stati l’oro è stato inizialmente preferito, per poi subire un declino. Con l’eccezione delle terre dei Franchi Salii, il soldo aureo fu la più diffusa moneta di conto prima di essere sostituito da una valuta in argento coniata già ai tempi dell’Impero romano e destinata anch’essa a un felice futuro nell’Alto Medioevo detto «barbarico», il danarìus.
Jacques Le Goff – L’eredità dell’impero romano e della cristianizzazione – in “Lo sterco del Diavolo”.