Con i dovuti ringraziamenti all’amica Marbet Rossi per questo articolo che mi ha gentilmente concesso di pubblicare sul mio sito.
L’essere umano, per vivere in società sempre più complesse e strutturate, ha dovuto in qualche modo astrarre il proprio comportamento dal puro istinto di sopravvivenza e sopraffazione, creando codici di comportamento etico, adatti a garantire la sopravvivenza della propria comunità e delle sue strutture, che limitassero l’istinto puro, forse perché ha compreso che la comunità può garantire a tutti gli individui migliori chances di sopravvivenza e continuità. La vita in comunità presuppone canoni etici e sviluppo culturale in grado di astrarci dall’istinto. Il discorso è complesso da affrontare in un ambito simile; del resto non sono né una biologa, né una zoologa o un’antropologa, quello che mi è noto dipende puramente da cultura generale, oltre che da curiosità e approfondimenti personali; io ho studiato e studio storia antica, per cui non vorrei andare oltre le mie competenze e rischiare di scrivere cose non esatte. Credo sia difficile definire cosa e quale sia esattamente la natura umana, quanto in noi istinto, razionalità ed ethos siano mero prodotto dell’evoluzione biologica e quanto possano appellarsi ad altro. Filosofi, antropologi e scienziati ne discutono da tempo immemore. Davvero non saprei dire quanto possa dipendere solo dall’evoluzione biologica e sociale, dalle esigenze funzionali e se o quanto invece possa esistere un principio innato, una natura umana razionale che, in quanto tale, si faccia promotrice di principi etici assoluti, variamente declinabili poi a seconda di luoghi, tempi, esigenze. Biologia, struttura, cultura?! La natura umana sembra essere stata sempre la stessa, almeno fin da che la storia ce l’ha documentata. Alcuni principi assoluti non hanno mai smesso di essere validi, ma il modo in cui la sensibilità umana li ha declinati è mutato molto. In tal senso il passato è davvero una terra straniera, e anche credere di poter porre una cesura così netta fra etica giudaico-cristiana e mondo precedente può essere corretto fino ad un certo punto, ma rischia di creare illusioni e fraintendimenti per altri versi. Gli antichi in massima parte convivevano serenamente con una sessualità che oggi definiremmo bi- o pansessuale, ma è bene non sovrapporre i nostri valori e le nostre sensibilità alle loro, perché potremmo restarne molto delusi o figurarci un eden della libertà di costumi e del rispetto delle scelte altrui che in realtà non è mai esistito. Innanzitutto le società umane antiche (almeno quelle classiche e mediterranee), che poi tollerassero – o, addirittura, in certi, casi, come quello della pederastia ateniese, o della philia eroica, incoraggiassero – più o meno l’esistenza di relazioni omoerotiche e di pratiche omosessuali, non hanno mai immaginato di mettere l’individuo al centro di tutto, come facciamo noi oggi, o al di sopra della comunità, della sua sopravvivenza e delle sue gerarchie, né, per questo, hanno mai considerato tutti gli individui e tutte le categorie umane alla stessa stregua, sotto tutti i punti vista. Un re, di solito, a causa della sua funzione, valeva cento, uno schiavo, poco più di zero. In molte società offendere il re comportava una pena, generalmente capitale e piuttosto brutale nei metodi di esecuzione, molto più grave di quella inflitta a chi avesse ucciso uno schiavo, atto considerato spesso lesivo unicamente del patrimonio del padrone. Occorrerà del tempo perché anche la vita e l’incolumità dello schiavo vengano considerate oggetto di tutela giuridica di qualsiasi livello. A noi la schiavitù fa orrore, giustamente, ma fino a 150 anni fa era considerata cosa normale e necessaria, comunque si considerasse poi lo schiavo: un essere umano come noi, solo più sfortunato, del cui operato servirsi, ma da trattare con umanità e possibilmente liberare ad un certo punto, consentendogli di fare famiglia e fortuna, oppure una cosa da usare ed abusare a piacimento, un essere inferiore destinato per natura a servire gli altri. La regalità, invece, era spesso ammantata di aure religiose, se non proprio giustificata da una teocrazia, e il re, in quanto individuo o immagine della sua carica, stava a metà strada fra gli uomini e gli dei. Ovviamente generalizzo molto, perché non è possibile fare diversamente in questa sede. Anche in seno ai regimi democratici, gli uomini liberi e i cittadini godevano di certi diritti, gli stranieri liberi e quanti fossero privi di cittadinanza di certi altri, le donne di altri ancora e gli schiavi non avevano diritti, ma solo il dovere di servire i padroni. Non in tutte le società antiche le donne erano viste e trattate allo stesso modo, ma difficilmente una donna poteva essere considerata al pari di un uomo. La pederastia greca, nata molto probabilmente con valore iniziatico e paideutico, in seno alle élites aristocratiche e guerriere, era molto legata all’idea che, sebbene la donna fosse indispensabile per la riproduzione e la continuità biologica e certamente piacevole e attraente per le sue forme, fosse però anche mediamente inferiore all’uomo, sia fisicamente che intellettualmente (ovviamente esistevano eccezioni, come la Diotima dei dialoghi platonici o la discussa Aspasia del circolo di Pericle), e che quindi solo un maschio adulto, di animo nobile e giuste virtù intellettuali, fisiche, civiche e militari, potesse correttamente educare un giovane maschio libero, un adolescente, ed iniziarlo, anche sessualmente, alla vita adulta, facendo di lui un vero uomo, perché una donna lo avrebbe invece reso invece un debole, un effeminato, un codardo senza i giusti punti di riferimento morali e intellettuali. Questi rapporti, che coinvolgevano uomini adulti di diversa età ed adolescenti tra i tredici ed i diciassette anni, erano strutturati in modo tale che l’adulto avesse ruolo attivo e dominante, perché doveva essere la guida, e l’adolescente quello passivo, perché doveva essere guidato. Non erano né psicologicamente paritari, né tesi a creare unioni durature, anche se poteva accadere che il legame in varia forma continuasse. Una volta cresciuto, l’adolescente doveva a sua volta farsi uomo, cioè, fra le altre cose, a tempo debito sposarsi con una donna e fare figli, per tessere alleanze politiche, economiche o di altro genere, con la famiglia della moglie legittima e per garantirsi una discendenza legittima ed una continuità e sicurezza biologiche e patrimoniali. Nel corso della vita, a patto di non creare scandalo, poteva poi intessere le relazioni erotiche e sentimentali che desiderava, con altre donne (per lo più schiave, etere, prostitute o concubine) o con altri maschi (adolescenti liberi, oppure schiavi di tutte le età). Un maschio adulto libero, legato ad un altro maschio adulto libero, non era necessariamente perseguitato, ma era guardato con sospetto ed emarginato. Se oggi per noi è il sesso del partner a fare la differenza, allora era la sua posizione sociale ed il suo ruolo nel rapporto, perché per un uomo antico la virilità era importantissima. A metterla in discussione non era certo il fatto di intrattenere rapporti sessuali con un altro maschio, ma era il suo ruolo. Se un rapporto generava il sospetto che il ruolo di un individuo adulto fosse passivo, lo stigma sociale cadeva pesantemente su quell’individuo, considerato in maniera degradante, come una donna o uno schiavo, e a volte lo stigma da solo non bastava, perché in diverse società antiche, a seconda delle epoche, si correvano anche rischi giudiziari (e in alcune società orientali si correva anche il rischio di ritrovarsi eunuchi).
Nell’orazione del retore ateniese Eschine, Contro Timarco, il suddetto Timarco, riconosciuto colpevole di aver intrattenuto troppe relazioni con uomini adulti nel corso della sua giovinezza, viene accusato di prostituzione e segnato dall’atimia, cioè dal disonore, cui in genere faceva seguito la perdita di una parte o di tutti i diritti civili, a tempo determinato o per sempre.
Con il termine atimia (ἀτιμία), nell’ordinamento giuridico dell’Atene classica, si designava infatti una qualsiasi limitazione dei diritti civili, fino alla loro totale perdita. L’opposto dell’atimia era l’epitimia (ἐπιτιμία), vale a dire il pieno possesso e godimento dei diritti civili, che, al tempo, era riservato ai soli maschi adulti di condizione libera e iscritti alle liste dei cittadini. Donne, stranieri, bambini, adolescenti e schiavi, per ragioni diverse e secondo modalità differenti, non godevano a pieno titolo dei diritti civili, non potendo votare o ricoprire cariche pubbliche. Dovevano pertanto avere dei cittadini liberi, maschi, adulti che agissero come custodi della loro proprietà e rappresentanti dei loro interessi. Se, tuttavia, quella di bambini e adolescenti maschi di condizione libera rappresentava una situazione transitoria, perché con la maggiore età acquisivano anche pieni diritti civili e politici, con facoltà di partecipazione e voto nelle assemblee, per le donne la situazione non mutava, restavano eterne minorenni e avevano bisogno di un patrono, in genere un uomo di famiglia (padre, zio, fratello, marito, figlio o altro parente) che curasse i loro interessi per tutta la vita.
Subire l’atimia voleva dire essere riconosciuti come “atimoi”, letteralmente “senza onore o valore”, quindi indegni di partecipare alle assemblee, di votare, di adire ai tribunali e, in poche parole, di far parte della vita pubblica della città, con grave danno per i propri interessi e per le carriere di quanti nutrissero ambizioni politiche. Tale definizione/sanzione veniva comminata al riscontro di inadempienze durante l’esercizio delle cariche pubbliche, come la mancata consegna dei resoconti, oppure per pene pecuniarie, come debiti insoluti nei confronti dello stato, oppure, ancora, per reati legati al pudore o alla morale pubblica e privata, come il rifiuto di ripudiare una moglie che fosse stata sedotta da altri o come, appunto, l’essersi offerti a troppe relazioni omosessuali in qualità di partner passivi, situazione considerata alla pari della prostituzione. Tutti questi reati, così diversi fra loro, erano accomunati dal fatto di aver reso il colpevole moralmente indegno, agli occhi del popolo, di servire la polis.
Il mondo ellenistico, fluido e multietnico per vocazione, con i suoi sovrani e le sue regine colte e raffinate, con le sue corti, i cui costumi rappresentarono un modello di mecenatismo imitato da molti uomini di potere, ma anche uno spauracchio per gli elementi più tradizionalisti e bacchettoni della società romana (prima della penetrazione della cultura ellenistica tutt’altro che permissiva verso l’omosessualità), fu forse il più libero e aperto in tal senso, in parte proprio per la sua natura cosmopolita e un po’ meno misogina, in parte per mimesi del suo celebre fondatore. Anche in questo caso, tuttavia, non bisogna farsi troppe illusioni, perché stiamo comunque parlando di società antiche impostate su valori diversi dai nostri. Temo quindi che l’eden di tolleranza che a volte ci si immagina nel mondo precristiano non sia mai realmente esistito, esistevano solo punti di riferimento diversi, anche se di certo c’erano molte meno ansie e tabù riguardo al sesso in tutte le sue forme. In tal senso, ai non troppo inibiti, consiglio, tanto per stare nel mondo classico, un tuor iconografico nella ceramografia attica, sulla quale si trova di tutto, da etere impegnate con grossi olisboi (sex toys e dildo antichi – certe cose non nascono con l’industria pornografia moderna, le opere di Aristofane ed Eroda lo confermano…), a ogni forma di rapporto sessuale di coppia e di gruppo, omo/etero-sessuale e misto, ammucchiate comprese. L’omosessualità pederastica e le altre forme esaltate (ma anche sempre discusse e mai univocamente intese) nascevano da un atteggiamento fortemente misogino, che poneva la virilità al centro di tutto. Qualcosa di ben diverso dalla sensibilità attuale di chi accetti l’omosessualità, la quale, anzi, ai nostri giorni è vista dagli omofobi – ovviamente per puro ed errato pregiudizio – come una sorta di messa in discussione e di inibizione della virilità di un uomo. Fra i greci, invece, la pederastia era esaltazione ed esasperazione del valore di una virilità a tratti misogina. Questo non significa che non esistessero poi rapporti bellissimi e delicati o unioni divenute exempla iconici e modelli assoluti di nobiltà e valore, come quelli delle coppie eroiche, mitiche e storiche, più famose. Questi legami, benedetti dalla virtù eroica, dalla fama e dal coraggio, erano però innanzitutto caratterizzati dalla più alta forma di philia (quella di tipo aristotelico) o di eros platonico e solo secondariamente valutati anche come possibili legami erotici normati. Un autore capace di mettere in discussione il pensiero estremamente maschilista che stava alla base dell’omosessualità pederastica fu, per esempio, Plutarco, che, nel dialogo Erotikon (tra i Moralia), presentò una situazione ritenuta anomala nella quale era una ricca vedova, ancora giovane e bella, a corteggiare l’adolescente “kalos kai agathos” più desiderato del ginnasio, generando notevole scandalo per l’inversione di ruoli, poiché questo tipo di corteggiamento si intendeva quale pratica messa in atto dai soli uomini adulti. Si riteneva, infatti, immorale che una donna si prendesse simili libertà e che pretendesse di poter fare la parte di un uomo ed essere un’amante in grado di sostenere ed educare correttamente un giovane. Nel breve dialogo Plutarco provava, dunque, a smontare tutti questi radicati pregiudizi, mettendo in critica l’esclusività maschile dell’ideale paideutico che li sosteneva. L’autore scisse tra la fine del I e l’inizio del II secolo d. C., ben prima dell’affermarsi del cristianesimo. La sua critica non era rivolta tanto ai rapporti in sé, comunque riconosciuti positivamente, quanto all’idea che solo un uomo potesse essere guida e amico di un altro uomo, ad esso psicologicamente ed intellettualmente pari. Il maestro di Cheronea difendeva il valore della donna nella coppia, non accusava l’omosessualità in quanto tale, al massimo criticava il principio misogino presente in certi rapporti socialmente accettati. In una simile società infatti una donna, per quanto rispettata, amata e desiderata, nella maggior parte dei casi, non avrebbe potuto essere considerata alla pari di un uomo, se non in circostanze eccezionali. Pur tuttavia, nessuna società antica, fatte salve alcune scelte che però erano considerate per lo più abiette stravaganze, si sognava di impostare la famiglia altrimenti che sul matrimonio eterosessuale, considerato un vincolo sacro e intangibile, un dovere civico cui solo gli indigenti potevano sottrarsi senza subire pressioni sociali e familiari, indipendentemente poi dai molti tipi di organizzazione familiare presenti, da quella tipicamente monogama, con o senza possibilità di ripudio o divorzio, a quella poligama, o, più raramente, poliandrica – nel senso che, come nella Sparta antica, per esempio, la moglie in età fertile poteva essere condivisa tra parenti e amici per non sprecarne il potenziale riproduttivo, se il marito legittimo era impossibilitato a svolgere i propri compiti biologici, magari perché assente per campagna militare in corso.
Esistevano eredità matrilineari, come in alcune culture africane, ma di solito il modello familiare era patriarcale, anche se il grado di rispetto e riconoscimento della donna variava a seconda di luoghi e tempi ed esistevano civiltà, come quella etrusca ed egizia, nelle quali alle donne erano riconosciuti più rispetto e libertà di movimento e iniziativa che altrove. Il pater familias romano repubblicano classico, cioè il maschio adulto libero più anziano e in grado di intendere e di volere, il patriarca, ebbe per secoli potere indiscusso di vita e di morte su tutti i membri della famiglia allargata, inclusi gli schiavi domestici, e persino sui figli adulti già sposati, cui poteva imporre lo scioglimento del matrimonio, se lo riteneva necessario. I patres potevano ordinare a mogli, figlie e nuore di abortire, oppure scegliere di non riconoscere, vendere, esporre, abbandonare i propri figli. Senza riconoscimento paterno il nuovo nato era figlio solo della madre biologica (mater semper certa) e ne ereditava la condizione sociale. Il neonato poteva anche essere figlio biologico dell’imperatore, ma se la madre era una schiava, senza altro riconoscimento, il bambino ero uno schiavo come lei. Partus sequitur ventrem. Principio che restò valido ancora al tempo della schiavitù dei neri in America. Ovviamente la maggior parte dei padri riconosceva e amava i propri figli legittimi, si preoccupava con sollecitudine e tenerezza/severità della loro educazione, ma era possibile, volendo, mettere in atto del tutto impunemente i comportamenti elencati. Gli antichi non erano esseri orribili, brutali, senza pudore e senza cuore, anzi, erano sensibili, amavano e si preoccupavano gli uni degli altri come noi, con tutte le possibili eccezioni, cattiverie, opportunismi e ipocrisie che fanno parte della natura umana, ma non sempre lo facevano secondo i nostri valori e le nostre priorità, soprattutto se si tiene conto del fatto che, prima dello sviluppo della medicina moderna, la sopravvivenza non era per tutti cosa tanto scontata, in particolare per neonati, infanti, puerpere, militari e uomini di fatica. La doppia morale che si è trascinata in Italia fino a pochi decenni fa, dalla quale deriva anche il delitto d’onore (nonché alcuni dei moderni femminicidi), ha radici molto antiche, precristiane. Il cristianesimo si è solo limitato a smorzarne e inibirne alcune parti, riconoscendo come principio religioso la comune natura umana di tutti gli individui di fronte a Dio – principio già presente in una parte della sofistica e delle filosofie ellenistiche (il cristianesimo sotto certi punti di vista è, culturalmente parlando, ebraismo innestanto sull’ellenismo). Ne ha però salvaguardate e tramandate altre, attraverso il vincolo della tradizione. Le grandi religioni portano infatti con sé, al principio, grandi mutamenti in grado di imprimere svolte alla storia, ma col tempo tendono a rappresentare l’elemento conservativo e tradizionalista di una società e dei suoi valori.
Alla base della doppia morale e dell’inamissibilità dell’adulterio femminile, considerato assai più duramente di quello maschile, stava il bisogno di riconoscimento della paternità legittima. Un uomo doveva poter essere certo che la prole nata dalla moglie legittima fosse realmente sua, diversamente si sarebbe sentito privato della possibilità di riconoscere e gestire la propria eredità e discendenza. Le donne raramente trasmettevano eredità, anche perché spesso dipendevano dagli uomini della famiglia, quindi il problema non si poneva per loro. Una giovane donna – oggi diremmo una ragazzina, perché le aspettative di vita media facevano sì che una femmina fosse considerata in età da matrimonio già a 13/15 anni, anche se non tutte si spostavano così giovani (le spartane, per esempio, mai prima dei 18 anni) – doveva arrivare vergine al matrimonio; un giovane uomo doveva invece accumulare sufficienti esperienze prima di sposarsi, se voleva essere considerato un vero maschio. Niente di tutto questo è stato inventato dal cristianesimo, è tutto molto più antico. Il cristianesimo ha posto in essere con maggior evidenza le clausole della purezza e della funzione riproduttiva, sacralizzata in termini di collaborazione umana al progetto della creazione divina, attraverso la generazione. Tutto il resto è precedente. Poiché, inoltre, l’omosessualità antica maschile (di quella femminile, ovviamente altrettanto esistente, abbiamo poca documentazione, come di tutto ciò che riguarda le donne) poteva comprendere tanto rapporti nobili e amorevoli fra persone libere e consenzienti, quanto spesso, purtroppo, anche rapporti tra padroni e/o uomini liberi. con prostituti/amasi/catamiti di condizione servile di tutte le età, anche le più acerbe, o fra uomini abbienti e potenti e ragazzi di condizioni più umili, per i quali (come per le pari grado femmine) è difficile dire quanta libertà di consenso potesse realmente esserci. Va da sé che tutto ciò coprisse e giustificasse anche una serie di comportamenti che oggi qualificheremmo come abuso sessuale e stupro o addirittura pedofilia, perché, se i bambini nati e riconosciuti liberi (considerati intoccabili) e gli adolescenti liberi (a seconda dei contesti considerati o meno coinvolgibili in rapporti omoerotici rispettosi) erano difesi dalla morale e/o dalle leggi, trattati con i guanti e mai costretti a niente che non accettassero liberamente, non può dirsi altrettanto degli schiavi e dei poverissimi, di fatto senza diritti né tutele. Le famiglie più povere erano costrette spesso a vendere i figli, soprattutto le bambine, che, senza dote, rappresentavano più un peso che una risorsa, e venivano avviate al servizio o alla prostituzione. Solo le etere più famose erano libere, prostitute e prostituti di ogni sesso e genere erano tutti schiavi. Ecco che in un panorama simile gli interventi cristiani non furono solo l’imposizione gretta di un’unica morale sessuale (e questo è vero purtroppo), con tanto di demonizzazione del piacere in quanto tale e di pratiche e modi di vivere l’eros del tutto naturali e non meno nobili di quelle eterosessuali, ma anche un modo per dimezzare gli abusi legittimi sui più poveri e meno protetti. Ovviamente col tempo e l’evoluzione sociale è rimasto solo il primo aspetto, un vulnus alla libertà e alla dignità di molti esseri umani. Attenzione però a giudicare il passato senza i dovuti filtri.