Verso la fine dell’Ottocento non esistevano né la Palestina né Israele. L ’area che è diventata teatro del conflitto arabo-israeliano non costituiva allora un’entità politica, ma faceva parte di due distretti amministrativi dell’impero ottomano, il sangiaccato di Gerusalemme e il vilayet di Beirut. Poiché i turchi non fecero mai un censimento, ci sono solo stime approssimative sul numero dei suoi abitanti; si ritiene fossero poco più di 600.000, la stragrande maggioranza dei quali arabi, soprattutto di religione musulmana sunnita, ma con una significativa minoranza cristiana. Alcune città e cittadine (Gerusalemme e Nablus nell’entroterra, San Giovanni d ’Acri, Giaffa e Gaza sulla costa) avevano sviluppato diverse attività economiche, ma lo stile di vita più diffuso era legato al moijdo agricolo, come risulta dal censimento fatto dai britannici nel 1931 (secondo cui il 64 per cento della popolazione traeva sostentamento dalla coltivazione della terra). Semplificando, si può affermare che tra gli agricoltori arabi si annoveravano sia fbeduini seminomadi del deserto del Negev e di alcune zone della Galilea, sia i molto più numerosi fellahin (contadini) che avevano il loro terreno da coltivare. Per quanto questi ultimi sentissero un forte legame personale con la terra, i loro effettivi diritti di proprietà erano spesso tutt’altro che sicuri.
La maggior_parte della terra apparteneva ai grandi proprietari e in almeno metà dei villaggi esistenti il sistema della mesha’a comportava il possesso comune delle terre, che ogni due o tre anni venivano ridivise tra gli abitanti del villaggio. Questa prassi rendeva i fellahin estremamente vulnerabili. La leadership era riservata agli ayan o «notabili», un’élite urbana perlopiù in possesso di estesi latifondi; i più importanti erano gli Husseini, i Nashashibi, i Khalidi e i Nusseibeh, che costituirono l’élite politica per gran parte del periodo. Quelle famiglie arabe esercitavano la loro influenza attraverso una sorta di interdipendenza con i turchi. Solo pochi notabili sembravano attratti dall’idea di una totale indipendenza araba, mentre la maggioranza avrebbe preferito una qualche forma di maggiore autonomia all’interno dell’impero: da questo punto di vista la loro condizione non era molto diversa da quella delle varie nazionalità che convivevano nell’imperoco. I paragoni con l’Europa, tuttavia, sono fuorviami, perché la società araba palestinese aveva radici profonde ed era felicemente inserita nella cultura e nello stile di vita del Medio Oriente.
Nel .1517 l’Egitto e i territori arabi del Mediterraneo orientale erano entrati a far parte dell’impero ottomano, governato da Costantinopoli. L ’Impero, nel momento della sua massima espansione, arrivò a comprendere quasi l’intero Medio Oriente arabo, l’Africa del nord e gran parte dei Balcani, e dovette perciò far convivere diverse comunità e minoranze religiose, tra cui quella ebraica e le varie chiese cristiane. Per molto tempo ci riuscì in modo accorto e sapiente, assicurando stabilità e coesione all’intera regione. Dopo l’assedio di Vienna del 1683, gli ottomani iniziarono però a ritirarsi, prima di fronte agli Asburgo in fase di riconquista, poi alle nazioni in fermento nei Balcani, e infine all’espansionismo britannico e francese. Nel corso dell’Ottocento il destino dell’impero – la cosiddetta «questione d’Oriente» – sembrò dominare le cancellérie d ’Europa. In tale contesto era quasi scontato che gli intellettuali arabi fossero attratti dallo spirito nazionalista che attraversava l’Europa di quegli anni, anche se prima del Novecento ben poco si mosse, a eccezione di qualche gruppetto di arabi colti a Beirut e Damasco. Si può individuare il punto d ’avvio del nazionalismo arabo nella rivoluzione turca del- 1908, che portò al potere i «Giovani turchi», irliuTprogram ma affermava il carattere turco dell’impero ottomano, allontanandolo così dalla linea di collaborazione con l’élite arabe: da quel momento in poi la questione dell’autonomia all’interno dell’impero assunse per quelle élite maggior rilevanza. Fu questo il sentimento su cui i britannici riuscirono a far leva quando scoppiò la guerra nel 1914, sebbene non vada dimenticato che, all’inizio del secolo, il nazionalismo arabo era ancora in fase nascente.
L ’elemento che alla fine riuscì a infiammare il nazionalismo arabo fu il ricordo del glorioso passato che aveva preceduto la conquista turca. Per la maggior parte degli arabi quel passato era associato soprattutto alla vita e agli insegnamenti di Maometto e alla potenza del suo messaggio, cóntenùtcT nèl Corano ed espresso attraverso la lingua araba. La fede nell’IsIam aveva dato al Medio Oriente arabo, all’Africa del nord e alla penisola iberica una civiltà profonda e raffinata. Nell’undicesimo secolo Baghdad, Il Cairo e Cordova superavano di gran lunga le maggiori città dell’Europa cristiana per numero di abitanti e complessità delle strutture civiche offerte ai sudditi. Furono gli arabi a preservare gran parte della filosofia e degli insegnamenti dei classici greci. Studiosi arabi svilupparono la matematica, la medicina e le scienze, e trasmisero i concetti di «algebra» e «alchimia» alle lingue europee. A differenza di molti nazionalismi europei otto e novecenteschi, che facevano riferimento a retroterra culturali in gran parte artificiali, il nazionalismo arabo fu in grado di trarre forza e ispirazione dai secoli in cui il Medio Oriente era stato al centro della civiltà mondiale.
A partire dal decennio 1880f1890, la società araba fu costretta a confrontarsi con una sfida inattesa, proveniente da quegli ebrei che intendevano ricreare nuove condizioni di esistenza nella loro ancestrale madrepatria. Dai tempi della diaspora («dispersione») ebraica provocata dai romani, gli ebrei – sia in Europa che in Medio Oriente – non avevano mai dimenticato l’origine della loro fede. Le loro nostalgiche aspirazioni religiose trovavano espressione simbolica nel Muro Occidentale, quella parte del Tempio che i romani avevano concesso di lasciare intatta in ricordo di tutto ciò che era stato perduto. Alcuni lottavano per mantenere una presenza ebraica nel paese, come quegli ebrei devoti che nel corso dei secoli avevano pregato e studiato nelle città sante di Gerusalemme, Safed, Tiberiade e Hebron. In ogni caso, il centro focale della vita ebraica aveva subito uno sconvolgimento e si era spostato in Europa dove, come il cristianesimo, si era sviluppato insieme all’impero romano e sulle sue rovine. Gli ebrei, una minoranza nell’Europa medievale, conducevano in molti casi un’esistenza poco invidiabile; considerati gli assassini di Cristo, furono spinti a svolgere attività impopolari e obbligati a vivere in aree delimitate, a espiazione della colpa, loro imputata. Nel corso dei secoli, mentre venivano relegati ai margini della vita europea, gli ebrei trovarono forza e consolazione nella fede religiosa, al cui centro c’era l’amore per Sion, per Gerusalemme. La loro posizione sembrò migliorare solo dopo che la rivoluzione francese diffuse in Europa nuove idee di tolleranza.
Non appena si aprirono nuove opportunità, uomini come Benjamin Disraeli in Gran Bretagna, Jacques Offenbach in Francia e Heinrich Heine in Germania offrirono i loro talenti al progresso generale della civiltà europea. Nell’Europa centrale e occidentale c’era ragione di nutrire speranze fondate. Banche e grandi magazzini di cui erano proprietari ebrei contribuivano al progresso economico e al miglioramento delle condizioni di vita. Medici e scienziati ebrei lottavano contro le malattie. Nelle città e cittadine di tutta l’Europa, gli artigiani ebrei cercavano, di condurre una vita dignitosa. In cambio, speravano che i loro servigi sarebbero stati apprezzati dai concittadini, e avrebbero alla fine prodotto rispetto e benevolenza. Ma nell’Europa di fine Ottocento stavano sorgendo nuove dottrine razziste e nazionaliste, che avrebbero contraddetto quelle speranze e condotto alla tragedia più terribile della storia ebraica. La maggior parte degli ebrei non viveva allora nell’Europa centrale e occidentale, bensì nell’impero russo, confinata nella cosiddetta «Zona di insediamento», e limitata nell’accesso all’istruzione e nell’esercizio delle professioni liberali.
Dopo l’assassinio dello zar Alessandro II da parte di rivoluzionari russi nel 1881, il sentimento popolare venne indirizzato contro gli ebrei; i pogrom che ne seguirono portarono all’introduzione di una parola nuova nelle lingue europee. Inoltre le «leggi di maggio» del 1882 sottoposero gli ebrei di Russia a una forma più ufficiale di discriminazione, sanzionando la loro espulsione dalle cittadine e dai villaggi in cui fino a quel momento era stato concesso loro di insediarsi. In seguito a queste persecuzioni, che continuarono fino al 1914, prese il via la grande migrazione di massa degli ebrei verso gli Stati Uniti che, nel giro di due generazioni, li vide trasformarsi da una di quelle «masse affollate» immortalate dalla statua della L ibertà, in uno dei gruppi più vitali del paese. Una minoranza trovò altrove, nella terra degli antenati, la propria fonte di ispirazione, dando così origine al movimento conosciuto come Chibbat Zion («L’amore per Sion») che, fra il 1880 e il 1890, iniziò a spingere piccoli gruppi di idealisti a insediarsi in Palestina. Rishon le-Zion, Petach Tikva e Rechovot vicino Giaffa e Rosh Pina in Galilea furono le prime colonie ebraiche.
La loro sopravvivenza fu in gran parte dovuta alla generosità del barone Edmund de Rothschild. Le colonie della prima aliya segnarono l’inizio del ritorno degli ebrei in Palestina nell’età moderna. Le origini del sionismo politico vanno però cercate in eventi che accaddero a Parigi e, in particolare, a Vienna. Alla fine dell’Ottocento, Vienna era la città europea più vivace dal punto di vista intellettuale. Tra gli esponenti di rilievo della vita giornalistica della capitale austriaca c’era Theodor Herzl, che sembrava aver abbandonato le sue origini ebraiche per identificarsi con la cultura austrotedesca della città. Ma Vienna aveva i suoi lati oscuri, che vennero allo scoperto nel 1895, quando il cristiano-socialista Karl Lueger fu eletto sindaco sulla base di un programma apertamente antisemita. L’inverno 1894-95 vide inoltre la presenza di Herzl a Parigi, durante il processo a Dreyfus e la sua degradazione. Dreyfus era un ufficiale ebreo dell’esercito francese, accusato (falsamente come si scoprì in seguito) di aver rivelato segreti militari alla Germania. Sconvolto dall’intensità dell’antisemitismo che si era così rivelato in quelle città, Herzl iniziò a meditare sul futuro degli ebrei, raccogliendo i suoi pensieri in un libretto, Der Judenstaat (Lo stato ebraico o, più correttamente, Lo stato degli ebrei), che venne pubblicato nel 1896. La tesi del libro era contenuta nel titolo: poiché agli ebrei non era stato permesso di assimilarsi alla vita europea, il popolo ebraico avrebbe dovuto riunirsi in un proprio stato. L’anno successivo si tenne in Svizzera, a Basilea, il primo Congresso sionista, presieduto da Herzl. Il Congresso proclamò come proprio scopo la creazione in Palestina di un «focolare» per gli ebrei. Nonostante la morte di Herzl nel 1904, il movimento sionista continuò nel decennio successivo a espandere la sua base tra gli ebrei della diaspora e a dar vita a nuovi insediamenti in Palestina, rimanendo tuttavia un movimento di minoranza all’interno dell’ebraismo mondiale.
Thomas G. Frazer – Le origini del conflitto arabo-israeliano – in “Il conflitto arabo-israeliano”