LO SCHIAVO NEL MONDO GRECO-ROMANO
[…] Che cos’è dunque uno schiavo, lo schiavo che si incontra nelle città greche dalla fine dell’epoca arcaica fino all’epoca ellenistica oppure a Roma e nel mondo romano? È anzitutto un uomo o una donna o un bambino che viene considerato proprietà di un padrone (o di una padrona). Nelle epoche in questione, tutti sanno che lo schiavo è un essere umano, che non è necessariamente nato schiavo e che, al contrario, qualsiasi uomo o qualsiasi donna liberi possono diventare schiavi. Giuridicamente e politicamente, lo schiavo è considerato un oggetto che fa parte del patrimonio del suo proprietario, allo stesso modo di una casa o del bestiame. Ciò nonostante la sua umanità viene riconosciuta anche sul piano giuridico, e in tempi assai antichi: tale riconoscimento è infatti anteriore all’impero romano, e non deriva soltanto dall’influenza stoica o cristiana. Certo, lo schiavo è una merce, ma a Roma, come scrive il giurista Africano, ci si rifiuta di chiamarlo merx, termine applicato a tutte le altre mercanzie. In ogni caso, questa situazione determina ed esprime un dominio molto forte dei padroni sugli schiavi: in quanto oggetto lo schiavo può essere alienato dal suo padrone, a discrezione di quest’ultimo, alla stregua di un altro bene; d’altra parte, come uomo, può essere liberato, ma sempre secondo la volontà del padrone o, eccezionalmente, per l’intervento della comunità politica. Lo schiavo non ha un’identità propria. Come ha scritto Filostrato, un bambino «che non ha nome né famiglia, non patria né terra, non va annoverato, per gli dèi, tra gli schiavi?» (Filostrato, Vita di Apollonia di Tiana, VIII, 7, 12; p. 372).
Egli riceve il nome del suo padrone e non ha mai né patronimico né cognome. Ci si limita a ricordare, in alcuni casi, che proviene da questa o da quella etnia (che è trace, cartaginese o gallo): è tuttavia chiaro che non si ricollega ufficialmente a questa etnia. Lo schiavo viene sempre da fuori, la sua origine è sempre straniera. Nelle città greche, non è un ex cittadino della città in cui è schiavo. Nel mondo romano, non è un ex cittadino romano. La sola grande eccezione a questa regola è lo schiavo per debiti. Ma la schiavitù per debiti è una forma di dipendenza che occorre distinguere da quella dello schiavo propriamente detto. D’altronde, essa è stata abolita nelle città greche (alla fine dell’epoca arcaica) e in seguito a Roma (alla fine del IV secolo). Tuttavia, presso alcuni popoli dominati dai greci e dai romani (per esempio in Asia Minore) si è perpetuata sino alla fine dell’antichità. In tutti i casi lo schiavo, straniero d’origine, era inoltre, lì dove viveva, una specie di «straniero assoluto» (ma uno straniero che, obbligato a lavorare per il suo padrone, acquisiva de facto una collocazione laddove si trovava il suo padrone). Gli era vietato costituire, per esempio con il matrimonio, una forma sociale riconosciuta dalla comunità. Alcune schiave avevano bambini; dunque a livello locale gli schiavi si riproducevano (fenomeno impossibile da quantificare e la cui importanza ha potuto variare secondo le epoche, ma ritorneremo su questo punto). Gli schiavi nati nella casa del padrone della loro madre, che era anche il loro padrone, erano chiamati oikogeneis in greco e vernae in latino. Molto spesso lo schiavo viene comprato. È in questo modo che si determina il diritto di proprietà. Ma può anche essere donato o catturato in guerra. Anche se è comprato, la sua immissione sul mercato deriva generalmente da un atto di violenza che può assumere diverse forme, tanto esterne – dalla guerra alla pirateria – quanto interne – dall’indebitamento (che si riscontra, come abbiamo accennato, tra i popoli non greci e non romani) alla tratta. La prima fonte di schiavi è stata la riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra, benché questo non sia stato il destino di tutti i prigionieri di guerra in tutte le epoche: alcuni venivano uccisi, altri erano integrati, almeno in origine, ai popoli vittoriosi. La dimensione del commercio degli schiavi e della tratta rimane difficile da valutare, ma la sua presenza è innegabile.
Fin dall’epoca arcaica in Grecia, e fin dagli ultimi due o tre secoli nella repubblica romana, la tratta era una realtà; in seguito, commercianti specializzati hanno continuato a comprare schiavi nelle regioni esterne all’impero romano e talvolta all’interno dell’impero. Infine il padrone può in teoria destinare lo schiavo a qualsiasi compito. Chiaramente questo principio ha dei limiti, poiché ogni lavoro presuppone una formazione, anche elementare, e una competenza alquanto precisa. Se alcuni testi parlano di domestici portati sulle terre del padrone per dare una mano nei lavori stagionali (per esempio nel raccolto o nella vendemmia), non è possibile, invece, trasformare facilmente un contadino in artigiano oppure in contabile. Il principio della disponibilità dello schiavo riveste tuttavia una grande importanza sul piano collettivo: infatti si spiega così perché, nel mondo greco-romano, si trovino schiavi in tutti i settori dell’economia, compresi servizi e amministrazione. In questo modo, molti proprietari privati hanno orientato una parte dei loro schiavi verso la gestione di commerci oppure di officine, mentre le città greche o gli imperatori romani sceglievano di affidare alcuni compiti amministrativi a schiavi o a liberti. Da cui la grande diversità di condizione materiale e professionale degli schiavi: se la gran parte di loro conduceva certamente una vita molto dura (nelle miniere, nelle officine o in campagna), esisteva anche una minoranza di privilegiati. Di conseguenza gli schiavi del mondo greco-romano non costituivano in alcun modo una classe sociale a pieno titolo, legata a certe funzioni economiche ben determinate; ma al tempo stesso rappresentavano un elemento essenziale della società.
Le forme tradizionali di dipendenza rurale (che abbiamo scelto di chiamare servitù) non possiedono queste caratteristiche distintive. Certo i servi, come gli schiavi, sono dominati da padroni e da stati; tale dominio si manifesta attraverso una serie di pratiche volte ad abbassarne il livello sociale, anche se in alcuni casi il ruolo di servo è importante nella vita e nell’economia della comunità. I servi hanno un padrone, ma non sono completamente di sua proprietà. In generale, è vietato venderli (un divieto a volte limitato alla vendita all’estero). Spesso, è proibito liberarli: solo la comunità può prendere questa decisione, e più a titolo collettivo che individuale. I servi sono indigeni del territorio in cui vivono e talvolta appartengono a una stirpe locale più antica di quella dei loro padroni. L’origine del loro statuto, così com’è nota dalla tradizione storica delle comunità dei loro padroni, non è l’acquisto, bensì la conquista della loro terra da parte di nuovi venuti che ne diventano i padroni, oppure una sottomissione più o meno «volontaria», sotto la spinta della costrizione. Tale situazione implica l’esistenza di un accordo, di un «contratto», almeno sul piano ideologico, che lega i servi ai loro padroni. Questo contratto si traduce in pratica in clausole d’obbedienza e di fornitura di servizi e di lavoro sotto forma di parte del raccolto. I servi hanno inevitabilmente un nome individuale, cui però le fonti in nostro possesso non fanno mai riferimento. Essi sono soprattutto dei popoli, ai quali il nome collettivo conferisce un’identità sociale nella comunità in cui vivono. Per quanto si trovino nel gradino più basso della scala sociale, fanno parte della comunità che riconosce loro una vita sociale, nella sfera pubblica (per esempio, con l’obbligo di partecipare alla guerra) e, al tempo stesso, sul piano privato. Hanno in particolare il diritto di riprodursi e di contrarre unioni matrimoniali, anche se, nella maggior parte dei casi, non siamo in grado di definire più precisamente le modalità di queste unioni. Infine, la loro disponibilità nell’ambito delle attività economiche è più limitata di quella degli schiavi. Infatti, sono obbligati per «contratto» a rendere servizi generalmente molto pesanti e che sono precisati dalla tradizione; d’altra parte, molte comunità che in epoca antica praticano tale sistema conoscono economie meno aperte verso le attività di scambio. Questa è precisamente una delle ragioni che hanno portato nel tempo alla trasformazione o, in alcuni casi, alla scomparsa della servitù.